Serena Galvani

di Serena Galvani

Ho iniziato a fotografare a 9 anni, rubando a mio padre la sua 'Agfa'.

Per me era una cosa innata, che sentivo dentro e che avevo bisogno di esprimere.
Vedendo la grande passione di quella piccola bambina, poi divenuta ragazzina, papà Ernesto mi regalò, per i miei 16 anni, una splendida Leicaflex, corredata da un paio di obbiettivi.
Ne ero entusiasta! E come non esserlo?

Amavo il verde, la campagna, la vita rurale, i piccoli borghi di pietra e l'apparente verità della gente. Amavo gli animali, la loro vita. Amavo i tramonti sul mare.
Così, ovunque fossi, passeggiavo per ore, accompagnata dalla mia felice ingenuità, a ritrarre, con orgoglioso piglio di imberbe fotografa, tutto quello che mi attraeva e mi piaceva.

O meglio, tutto quello che la mia anima intercettava e sentiva nel profondo.

Mi ero anche 'costruita' una camera oscura in casa e un angolo per i ritratti alle mie amiche. Già, perché amavo Hamilton e sviluppavo il bianco e nero.
Un giorno lessi di un concorso fotografico nazionale O.N.P.I. e presentai per gioco un mio ritratto.

Due mesi dopo mi arrivò una lettera: non potrò mai dimenticarlo! Avevo vinto il secondo premio!!! Io, appena diciassettenne, avevo vinto l'enorme coppa d'argento del Club Cine Foto Reflex per il B/N !!!! Era il 1976: con me aveva vinto un vecchio pastore, la schiena curva come il ponte a schiena d'asino su cui portava al pascolo le sue pecore. Con me avevano vinto l'umiltà, la vita vera e l'anima.

Un giorno, a Roma, dimenticai la mia Leica su un Taxi e con lei, che mai ritrovai, svanirono un po' di sogni... Mi era rimasto un tele originale, ma senza la macchina non potevo usarlo. Ero certa che papà non me ne avrebbe regalata un'altra e così, in lacrime, fui costretta a venderlo. Quando vidi sul bancone del negozio di fotografia quanti soldi mi avevano dato per quello splendido obiettivo, chiesi al commesso cosa avrei potuto comprare con quella cifra per poter proseguire nel mio giovane lavoro di fotografa che mi dava tanta felicità. Tempo dieci minuti e mi ritrovai tra le mani una bella borsa fotografica con dentro una Pentax corredata di grandangolo, due zoom e un teleobiettivo !

"Siiii !!!" Esclamai entusiasta. "Posso ricominciare!!!"

Con lei, che divenne subito la mia nuova compagna di vita, ogni week-end, e ogni giorno festivo, e ogni vacanza che Dio mandava in terra andavo in palude a fotografare l'avifauna.

Avevo capito che il volo degli uccelli era la mia libertà, e studiare la loro vita era fonte di saggezza.
Piano piano imparavo tutti i loro nomi, le loro abitudini, i loro versi. Ero arrivata, per esempio, ad imitare perfettamente il Tarabuso, col quale chiacchieravo abbastanza a lungo, e questo era un modo per trovarlo tra le canne degli stagni. Lui, tutto perfetto, convinto di essere super mimetico, ed io che scattavo felice.

Erano i tempi delle foto a stampa e delle diapositive che, sinceramente, preferivo per questo tipo di fotografia, se non altro perché la loro proiezione era in grado di proiettare chiunque di noi nel loro mondo.

Ma anche questo era bello.  Eri in qualche modo 'meno spiato' da tutti, meno invidiato da tanti, ma in meno potevano conoscere la tua passione.

Io facevo progressi e riuscivo a inquadrare sempre meglio i voli inaspettati e gli uccelli impossibili come il Martin Pescatore che non stava mai fermo!

Se c'era un casone nella riserva mi appostavo lì dentro, se non c'era mi vestivo di frasche e fingevo di essere una pianta. Troppo bizzarro. Divertente. Entusiasmante. Alla sera tornavo a casa distrutta, con quella sana distruzione del corpo capace di rigenerarti la mente.
D'altronde si facevano i chilometri, e con tutti quei pesi addosso.
Ma che sane dormite, poi!

Qualche anno dopo, decisi che era venuto per me il momento di cambiare attrezzatura... Ciao, cara amica Pentax... Cambio con Nikon. Spettacolo! La Nikon di "Blow up"... la Nikon professionale con tutti quei tele... e la grande invenzione del Novoflex, il 600 mm focale 5,6 con impugnatura a fucile che velocizzava ogni mossa, mutando gli scatti in una raffica di 'mitra' che ti permetteva di non sbagliare più una messa a fuoco. Geniale invenzione dell'epoca. Come si dice a Bologna: "Non ce n'era più per nessuno".

Così fu e mi scatenai coinvolgendo in questa mie avventure i miei morosi e, poi, il mio ex marito. Devo dire che tutti erano entusiasti.

Iniziai una collaborazione col WWF e alcune mie foto finirono anche sulla rivista 'AIRONE'.

Intanto mi ero laureata, specializzata e avevo preso una seconda laurea brevis, avevo iniziato a lavorare per una società di ricerca e per l'Università di Bologna, davo lezioni private di latino e greco, partecipavo a congressi, ma nessuno avrebbe mai potuto togliermi dagli svassi maggiori, dalle garzette o dalle alzavole o, ancor di più, dall'entusiasmo dell'avvistamento di una volpoca.

Pittime, pittime reali, cavalieri d'Italia, fenicotteri, passere, averle, migliarini di palude, pendolini, ballerine, porciglioni, morette tabaccate, moriglioni, mestoloni e chi più ne ha, più ne metta, erano ormai il mio pane quotidiano.
Scattavo, sviluppavo, catalogavo.

Qualche incontro con i rapaci allargò ancora di più le mie ali di libertà, anche se il mio preferito rimaneva sempre l'amico tarabuso, elegante maggiordomo tra le canne, capace di incredibili mimetismi.

Ed eccola qui, l’elegante Volpoca.

Iniziai pian piano ad allargare i miei obiettivi, finalizzando ogni viaggio alla fotografia e fu così che arrivarono le Seychelles, il Kenya e la Tanzania e, con loro, le macchine digitali.

Va da sé che in Africa iniziai a occuparmi anche di mammiferi e ovunque andai, poi nel mondo, arrivai anche a mettere  alla prova la velocità dei miei scatti perfino con la corsa del giaguaro.

Eh già, perché in tutti quei “laggiù”, quella parte selvaggia che dominava grandemente la mia anima, era pienamente appagata.

Non mi importava nulla né di quanto dormivo, né di cosa mangiavo, né se per fare una doccia dovevo usare un annaffiatoio o una vecchia bottiglia d'acqua. Quello che mi importava era vivere in quella dimensione insieme a tutti quegli animali e imparare da loro qualcosa sull'amore, sulla conquista, sul branco, perfino sulla saggezza.

Mi sentivo colorata e potente come quei tramonti, fiera di conoscere, capire, vivere.

Dall'alba alla notte ero sempre attenta, sempre pronta, sempre concentrata sui fruscii tra gli alberi, i ruggiti e il verso dei babbuini.